E se l’onda ci travolge?

Psicoterapia individuale e di coppia

E se l’onda ci travolge?

Abbiamo visto che il surfista allenato non si scoraggia, sa riemergere e cercare un’altra onda.

Ma non tutti siamo abili e allenati e anche con le emozioni può capitare, a tratti o per molto tempo, di essere “travolti”.

Questo non confuta il fatto che le emozioni sono nate per essere al nostro servizio, per accompagnarci, guidarci, illuminarci la via…

La loro funzione primaria è infatti quella “adattativa”. Sono un ponte fra noi e il mondo, ci aiutano a cercare un equilibrio, un adattamento, uno stato di benessere e, (perché no?) di piacere o addirittura di felicità.

Ci insegnano infatti ad allontanarci da ciò che non ci piace o dis-piace e a cercare tutto quello che può darci qualche forma di ricompensa, di gratificazione, di piacere.

È vero, siamo edonisti, come il buon Freud ci ha insegnato, cerchiamo in tutti i modi di allontanarci dal dispiacere, dal dolore, dalla punizione intesa come evento che “ci costa” e non ci fa star bene.

Come una mano che si ritira automaticamente e velocemente da un oggetto che scotta, altrettanto bene impariamo a evitare o fuggire da tutte quelle situazioni che in qualche modo ci spaventano, in cui non ci sentiamo adeguati e che abbiamo quindi la sensazione di “non controllare”. Già: il controllo.

Già da piccoli ci alleniamo a diventare “esperti” nel controllo. E quante cose dobbiamo imparare e quanti sforzi per farlo. Camminare, correre, andare in bici ma anche comunicare esprimere bisogni, emozioni….

Quando controlliamo ci sentiamo sicuri: se so nuotare non ho paura dell’acqua….

Già… la paura, forse l’emozione più importante per la nostra sopravvivenza.

La mamma che ci diceva? Attento, non andare là, non attraversare la strada, non cacciarti nei guai: e come una buona mamma la paura ci spinge a non ficcarci in situazioni che non siamo in grado di controllare, di gestire.

Ai nostri antenati preistorici, esposti com’erano a pericoli continui e a problemi di sopravvivenza, la paura ha salvato tante volte la vita (se oggi siamo qui a raccontarla è proprio perché sono sopravvissuti, si sono riprodotti…fino ad arrivare a noi).

Ma cosa succede quando la paura ci fa evitare situazioni quotidiane, come uscire di casa, attraversare una piazza, salire su un tram, un ascensore, un’auto?

In questo caso non è più una questione di sopravvivenza, non trattandosi di pericoli “reali”.

Ma poi, in fondo, cosa vuol dire “reale”?

Ciò che è reale per me può non esserlo per un’altra persona. Perché ognuno si “costruisce” un’immagine, una rappresentazione, una mappa della realtà.

È la caratteristica fondamentale di noi umani. Fuori di noi c’è una realtà: ma noi la “interpretiamo”, ne costruiamo un’immagine, una rappresentazione nel grande “teatro” della mente.

 Qualcuno le chiama “mappe mentali”: fotografiamo il mondo con l’occhio della nostra mente e quella foto, soltanto una delle possibili, innumerevoli, diventa la foto che più rappresenta la “nostra realtà”, non quella che vediamo ma quella che interpretiamo.

E’ questo che ha spinto il filosofo greco Epitteto, vissuto nel 100 d.C. a dire “Non sono i fatti in sé che turbano gli uomini, ma i giudizi che gli uomini formulano sui fatti”, cioè come li interpretiamo e valutiamo.

Le emozioni, come praticamente tutto nella vita di noi uomini, sono soggette all’apprendimento.

Man mano che cresciamo cerchiamo di mappare la realtà per renderla “prevedibile” “controllabile” e (perché no?)  manipolabile.

E l’emozione si associa sempre ad ogni evento, ad ogni situazione ad ogni “pensiero” o immagine di una situazione, di una persona, di un contesto.

L’emozione le dà colore, spessore, risonanza, ricordo.

Non tutte le situazioni, persone, eventi sono quadri d’autore che ammiriamo. Le tinte possono variare dal tenue all’intenso, dal vivace al torrido, orrido, spaventoso. Nascono le fobie, gli allontanamenti, gli evitamenti.

Possiamo infatti spiegare le emozioni in termini di allontanamento – avvicinamento agli oggetti e alle situazioni, a seconda di quanto sono considerati desiderabili o meno.

 E se la funzione è quella adattativa, beh, in fondo l’evitare situazioni “ansiogene” che ci turbano non è un adattamento, basato sulla “prevedibilità” che ci siamo costruiti?

 Evitare ciò che ci turba ci fa rimanere nella nostra "zona di confort” allontanando la paura e l’ansia connessa.

Ci verrebbe da dire “tutto bene quel che è bene” se certi adattamenti non fossero però limitativi per la nostra quotidianità.

Cosa succede se a causa dell’ansia sono costretto ad evitare di attraversare una piazza, prendere i mezzi pubblici, guidare in autostrada?

Riduciamo il nostro spazio di autonomia, ci creiamo limitazioni "esistenziali”, veri e propri automatismi dai quali è difficile liberarsi e che col tempo possono allargarsi “a macchia d’olio” invadendo anche situazioni “limitrofe”.

Che fare quindi quando le emozioni non sono più al nostro servizio ma ci limitano, ci sequestrano?

Beh la soluzione è nello stesso meccanismo che le ha provocate: l’apprendimento.

Quando a scuola sbagliavamo a scrivere una parola, a mettere un accento, non ci siamo corretti? Naturalmente non è del tutto facile.

Se a scuola avevamo una “guida” nel maestro o nella maestra, qui il nostro “coach” sarà uno psicologo, meglio se di scuola cognitivo-comportamentale che ha una tradizione più lunga, specifica e sostenuta da evidenze sperimentali, nella cura dei disturbi legati all’ansia.

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